Friday, March 30, 2012

Aeroporto JFK di NYC : TWA Terminal

Oggi, vi faccio vedere l`interno di una costruzione che ha lasciato un`impronta inconfondibile nei manuali dell`architettura moderna . Stiamo parlando del "vecchio"  terminal della TWA. Venne commissionato al famoso architetto finlandese Eero Saarinen       ( http://en.wikipedia.org/wiki/Eero_Saarinen)  e costruito nel cuore dell`aeroporto JFK di New York City . Il terminal , venne inaugurato e aperto al pubblico nel 1962  e come potrete vedere dalle foto, a distanza di 50 anni conserva ancora tutto il suo fascino . Attualmente , per allineare  il JFK agli standard qualitativi dei maggiori aeroporti mondiali ( Hong Kong e Dubai in primis ) la Port Authorithy di NY & NJ ,assieme ad alcuni  investitori internazionali, sta valutando la possibilità` di far diventare questo gioiello architettonico il punto di riferimento dell`intero aeroporto . Il progetto,  prevede la conversione della struttura in una area dedicata allo shopping di lusso e alla ristorazione .In aggiunta ,  la costruzione di un albergo all`esterno, per  servire  parte di quei  quasi 50 milioni di passeggeri che transitano annualmente in questo aeroporto . 

Dalla stazione del treno


Al tramonto in B & N

Pensilina esterna

Furgone di Port Authority

Banco Informazioni


Contrasti 

Banco informazioni

Lounge

Volta

Volta da differente angolazione

Veduta dall`alto

Vetrata sulle piste

" Oper d`arte Sexy "

Lounges

Lounge dall`alto


External View 

Dolci curve 

Tunnel di sx

Sotto le ali 

Sinuosita`

Dettaglio

Executive lounge

Tunnel di dx 

Orologio originale 

Curve sexy 

Chiaroscuro

Dettaglio scale

Tunnel di accesso agli aerei 

Armonie ricurve 

Flying away

Dettaglio del soffitto

Vista dal baco informazioni

Dettaglio

Pensilina est 

Riflessi

Ritorno in citta`

Wednesday, March 21, 2012

Dalla panchina di un marciapiede di NY : l`attuale situazione all`interno delle aziende

Qualche giorno fa , affondando  un delizioso croissant al cioccolato in un ottimo cappuccino appena servitoci dalle gentili ragazze di Bottega Falai , stavo analizzando in compagnia di un paio di "vecchie volpi" del settore,  l`attuale situazione delle aziende che operano nel settore del fashion . Come sempre avviene quando i partecipanti "vivono interiormente" il problema , lo scambio di opinioni al riguardo si e` fatto  via via più appassionato, e i dettagli della conversazione stessa  , hanno di fatto acceso una spia rossa nella mia mente . Infatti , i due amici con cui ho condiviso questo momento ( sono managers con un curriculum lavorativo invidiabile dalla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori ) sostenevano praticamente   quello che da un pezzo sto pensando. E cioè : nelle aziende di oggi ,  il livello qualitativo degli impiegati  sta decadendo sempre di più, e questo ,  e' diventato il problema principale da risolvere . La causa ? La scarsissima preparazione dei selezionatori  del personale che lavorano  all`interno degli  "Human Resources Offices" delle varie aziende. 



Mi spiego meglio : sino a qualche tempo fa , le selezioni venivano fatte sulla base di conoscenze tecniche vere e proprie . Ad esempio , il responsabile delle vendite  sceglieva i venditori , il responsabile logistico si occupava del personale di cui aveva bisogno in magazzino e così` via !. Poi ad certo punto , sono arrivati gli uffici del personale  ! Gli addetti che ci lavorano non sono altro che degli impiegati che , privi delle minime cognizioni riguardo le diverse aree operative che ci sono all`interno di un`azienda , devono assumere il personale competente per i diversi profili che i vari dipartimenti richiedono . Le assunzioni fatte da questi poco illuminati impiegati , nella maggior parte dei casi, vengono fatte o per simpatia,  o peggio ancora perché` il/la  candidato/a   che viene scelto , viene ritenuto/a   un possibile collega che sarà  incapace di sollevare  questioni o mettere addirittura in discussione  le capacita`del proprio responsabile diretto .


Da aggiungere ,  che non conoscendo assolutamente il lavoro che il candidato dovrebbe svolgere , il selezionatore di turno si affida ai curriculum !!!!! 


Per cui , considerando :
a) la scarsa preparazione dei selezionatori
b) i curriculum fantasiosi dei candidati 
(se uno di voi prova a navigare in Linkedin per una decina di minuti vedrà che il livello medio del curriculum degli iscritti a questo sito , e` di poco inferiore al C.V. che  avevano Einstein o Oppenheimer ) 


il risultato che questo processo genera , e` quello, di aver avvolto le aziende con una ragnatela di discreti impiegati il cui unico obiettivo e` vincere la coppa Cobram di fantozziana memoria 




Sembra infatti, che  l`obiettivo principale degli uffici del personale, sia diventato quello di difendere a tutti i costi le posizioni di privilegio che  le prime linee occupano,  invece di mettere pressione dal basso , affinché tutta l`organizzazione riceva  beneficio dall`innesto di nuovi colleghi portatori di  una ventata di novità. 




A tal proposito , un riferimento ad un fatto che ho vissuto personalmente . 
Qualche anno fa , il responsabile finanziario della capogruppo   per cui lavoravo  , mi "costrinse" ad  assumere come CFO della società americana di cui ero responsabile ,  un improvvisato ragioniere che non sapeva manco utilizzare Excel . Tra l`altro, il lungimirante fenomeno  ( che continua a ricoprire un  incarico di prestigio anche grazie al suo grado di parentela )  mi disse , che questo povero diavolo andava bene , non solo perché` sapeva fare discretamente ( parola che odio in quanto discreto per me significa perdente )   bene il lavoro richiesto , ma anche e soprattutto perché` costava  relativamente poco .                                              Alle mie rimostranze,  la spiegazione che mi venne data fu : lo buttiamo in acque profonde e vedrai che imparerà  a nuotare: fidati. Inutile dire che il potenziale "nuotatore" per poco non ci faceva affogare tutti . 




Ma torniamo al presente .
Dalla mia panchina , ho come l`impressione,  che purtroppo l`enorme problema di cui sopra ( una selezione del personale fatta finalmente da uffici competenti ) , non sia ancora stato individuato dai proprietari delle aziende stesse , i quali per simulazione ( copiando dai libri di successo venduti un tanto al chilo ) , danno incarico alle varie   agenzie di consulenza ( altro cancro da estirpare quanto prima ) di individuare quali sono i problemi per cui i risultati non arrivano. 


Parlando da consumatore moderno , credo che per poter rimanere a galla in un mercato sempre più` asfittico ed esigente , l`avere credibilità,  trasferire al cliente/consumatore  conoscenza e contenuti,  sia fondamentale . Per fortuna, per molti di noi , la credibilità  non si può acquistare . 
Infatti ,si riesce ad essere credibili solo quando si conosce profondamente il lavoro che si svolge . Ad esempio , quanti di noi si sono trovati di fronte un venditore od un commesso che magnificava un paio di jeans , una borsa , un paio di scarpe o altro, senza che  conoscesse minimamente il contenuto  dei termini che adoperava ? (e mi fermo ai termini italiani perché se  dovessi considerare anche gli "inglesismi e le castronerie che ne seguono , non avrei abbastanza giga a disposizione ) 
Quante volte,  abbiamo girato i tacchi , quando ci siamo resi conto che davanti a noi non avevamo altro che uno/a Vanna Marchi qualsiasi,  che cercava di venderci il sale da sciogliere nel bicchiere ? 
(a  tal proposito, sarebbero da condannare almeno a tre mesi di lavori socialmente utili quelli che alla Vanna glielo hanno comprato il sale !).


Mi irrito sempre di più , entrando a contatto con un commesso di un qualsiasi esercizio commerciale , o peggio ancora se mi trovo  a parlare con qualcuno che conosco, quando mi rendo  conto che coloro i quali mi stanno vendendo qualcosa,  o con cui sto dialogando , si esprimono con concetti che non appartengono a loro,  ma ripetono cose che hanno sentito dire da altri senza aver minimamente approfondito i contenuti stessi. Perche`, siamo arrivati a questo punto ? Quali sono i motivi per cui oggi , il  come ci si presenta, ha letteralmente surclassato quello che sappiamo fare ? 
Lo so,  che ci sono giovani che hanno cultura, che sanno cosa vuol dire essere credibili ( uno di questi  un paio di settimane fa mi ha fatto spendere 400 usd per un paio Jeans di una marca sconosciuta  ). Mi  ripeto , so che ce ne  sono , sono anche molto bravi (di sicuro ,  costano un poco di più di un  belloccio effeminato  o di una coatta truccata messi lì a fare i "manichini" ) e  hanno tanta voglia voglia di fare , per cui ......concludo con un appello a tutti coloro che appartengono a qualche ufficio del personale e che per caso hanno letto quanto sopra : 
al prossimo colloquio, non siate timorosi di assumere persone che hanno il " fuoco dentro " ; molto probabilmente,  saranno proprio questi che vi salveranno il posto di lavoro,  evitando che l`azienda dove lavorate entri in crisi e possa anche chiudere . 
Con affetto 


Accetto segnalazioni su quali sono i vostri pensieri e le vostre opinioni al riguardo .


Per quelli che leggono in inglese, suggerisco la lettura che una giornalista fashion di fama mondiale come Suzy Menkes ha scritto un paio di settimane fa sul  NYT riguardo il dorato mondo della moda attuale .
Anche se Suzy , una tiratina d`orecchi se la meriterebbe per l`incolpevole ritardo dell`analisi che fa . Comunque , illuminante .



We Are All Guilty for This Mess


Published: February 26, 2012

                  

MILAN — The current state of fashion, with designers enticed to houses where they may be rejected, removed and re-embraced, leaves a queasy feeling.


The drama that started almost exactly a year ago with the breakdown and departure of John Galliano from Dior has spread across the fashion universe.
The moving end to Raf Simons’s seven years at Jil Sander dominated the Milan scene over the weekend as much as the news that Ms. Sander herself will be returning.
Speculation now has Yves Saint Laurent taking on Hedi Slimane, who was a designer choice to follow the original maestro. The idea that Mr. Slimane, who has followed a photographic career since his departure from Dior Homme, would move back to YSL, where he once designed men’s wear, has created yet-another firestorm across the cybersphere.
Caught in this maelstrom are the designers. By their nature artistic and fragile people, they see themselves treated like commodities, bought and dispensed with as the corporate house pleases.
There is a reason that long-serving fashion executives have been replaced in recent years by chief executive officers whose history is in ice cream, yogurt or other marketable products. With a global society hungry for luxury, distribution and supply chains are now as important for executives as a hands-on feel for products.
But not all the blame can be put on the corporate conglomerates, who have, like a flood tide, been inundating family-run houses. In Italy, La Familia just about hangs in there, hoping that each generation will serve up a smart son or daughter. But it is increasingly hard for small Italian brands to keep a mom-and-pop business going, especially when China’s industrial base for fashion will soon outstrip Italy’s.
Designers, too, are not blameless victims of the new deal. They have also become commoditized, picking the right lawyer to fight for sky-high salaries and sweet treatment as if they were Hollywood stars.
Cut off from reality, as Mr. Galliano was and many others still are, in the world of first-class travel and the chauffeur at the door, they find themselves enmeshed in a web of their own making.
They are too used to a lifestyle that has brought them fabulous apartments filled with contemporary art and photography to break out of this lush gilded cage, where they are obliged to dance again and again: fashion show, store opening, midseason presentation, second line, media interviews, team meeting, ad shoots, global travel. Smile, smile, smile — and rock until you drop.
Then there are us, the journalists surrounded by a sea of bloggers. The Twitter world magnifies and distorts reality, as I found out last autumn when my speculation, based on sound information, that Raf Simons had been talking to Yves Saint Laurent people was transformed by the Twitter world into a done deal.
No grain of gossip is too small to grow into a mighty story.
Designers in the past have fought with the “suits” and turned to alcohol and drugs. Why do things seem such a mega-drama today, ending any chance of a sad situation being resolved with dignity?
The natural end of an era, as designers whose houses bear their names grow old and pass away, combined with the arrival of digital cameras and Internet exposure, has created a perfect storm.
Fledgling designers need investment — but how much easier it is to put them in a dead man or woman’s shoes, perhaps also backing the new designer’s namesake line, but only as what the French call a “danseuse,” a plaything.
Karl Lagerfeld’s success at Chanel and Fendi (if not with his own various lines) is the template. Marc Jacobs is one of the rare designers who has fought and won, from LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton, the right to build a global empire in his own name. Yet when he was approached to take over at Dior, he reportedly asked for too much in return.
If designers suffer, what about the toiling teams behind them? They are mostly unknown — loved and hand-picked by a designer, yet abandoned or even thrown out after a change of leadership.
The situation is not universally toxic. The collaboration between Donatella Versace and Christopher Kane with his sister Tammy is a sweet reminder of the Gianni Versace/Donatella years. But what if — as the rumor mill claims — Mr. Kane has been put up for the Dior job? There will be yet another round of musical chairs.
As a journalist, I cannot help imagining with excitement a new era with a face-off between Hedi Slimane at YSL and Raf Simons at Dior — a magnificent battle of style and wills to echo the Armani/Versace, Gucci/Prada or even Chanel/Schiaparelli face-offs of earlier years.
But I remind myself that this is not a game of chess. And that real people — especially sensitive designers — deserve not to be treated as pawns in someone else’s game

Thursday, March 15, 2012

Why I Am Leaving Goldman Sachs


Ieri sul NYT e` stata pubblicata questa lettera . Le motivazioni per cui un top executive manager della banca d`affari Goldman Sachs ha rassegnato le dimissioni.
Leggendola, non ho potuto fare a meno di pensare a quante situazioni come questa ci sono nelle aziende di tutto il mondo . Oggi  purtroppo , quello che conta e` solo il profitto,  e ci si e` dimenticati del ruolo centrale del cliente .
Dobbiamo  prendere in considerazione  il fatto che siamo oramai ad un punto di non ritorno . Comprendere il prossimo e  agire  per soddisfare i suoi bisogni,  saranno le colonne portanti per formare le nuove generazioni . Gli uffici del personale che al posto di valutare le qualità` delle risorse umane si ostineranno ad assumere carne da macellare per poi  sputarla una volta esaurito il "gusto"   , non faranno altro che accelerare il processo di disintegrazione del sistema  .
Tra qualche giorno mi siedero` sulla mia panchina per  rifletterci un poco e vi faro` partecipi del mio  pensiero .

Why I Am Leaving Goldman Sachs
By GREG SMITH
Published: March 14, 2012


TODAY is my last day at Goldman Sachs. After almost 12 years at the firm — first as a summer intern while at Stanford, then in New York for 10 years, and now in London — I believe I have worked here long enough to understand the trajectory of its culture, its people and its identity. And I can honestly say that the environment now is as toxic and destructive as I have ever seen it.
To put the problem in the simplest terms, the interests of the client continue to be sidelined in the way the firm operates and thinks about making money. Goldman Sachs is one of the world’s largest and most important investment banks and it is too integral to global finance to continue to act this way. The firm has veered so far from the place I joined right out of college that I can no longer in good conscience say that I identify with what it stands for.
It might sound surprising to a skeptical public, but culture was always a vital part of Goldman Sachs’s success. It revolved around teamwork, integrity, a spirit of humility, and always doing right by our clients. The culture was the secret sauce that made this place great and allowed us to earn our clients’ trust for 143 years. It wasn’t just about making money; this alone will not sustain a firm for so long. It had something to do with pride and belief in the organization. I am sad to say that I look around today and see virtually no trace of the culture that made me love working for this firm for many years. I no longer have the pride, or the belief.
But this was not always the case. For more than a decade I recruited and mentored candidates through our grueling interview process. I was selected as one of 10 people (out of a firm of more than 30,000) to appear on our recruiting video, which is played on every college campus we visit around the world. In 2006 I managed the summer intern program in sales and trading in New York for the 80 college students who made the cut, out of the thousands who applied.
I knew it was time to leave when I realized I could no longer look students in the eye and tell them what a great place this was to work.
When the history books are written about Goldman Sachs, they may reflect that the current chief executive officer, Lloyd C. Blankfein, and the president, Gary D. Cohn, lost hold of the firm’s culture on their watch. I truly believe that this decline in the firm’s moral fiber represents the single most serious threat to its long-run survival.
Over the course of my career I have had the privilege of advising two of the largest hedge funds on the planet, five of the largest asset managers in the United States, and three of the most prominent sovereign wealth funds in the Middle East and Asia. My clients have a total asset base of more than a trillion dollars. I have always taken a lot of pride in advising my clients to do what I believe is right for them, even if it means less money for the firm. This view is becoming increasingly unpopular at Goldman Sachs. Another sign that it was time to leave.
How did we get here? The firm changed the way it thought about leadership. Leadership used to be about ideas, setting an example and doing the right thing. Today, if you make enough money for the firm (and are not currently an ax murderer) you will be promoted into a position of influence.
What are three quick ways to become a leader? a) Execute on the firm’s “axes,” which is Goldman-speak for persuading your clients to invest in the stocks or other products that we are trying to get rid of because they are not seen as having a lot of potential profit. b) “Hunt Elephants.” In English: get your clients — some of whom are sophisticated, and some of whom aren’t — to trade whatever will bring the biggest profit to Goldman. Call me old-fashioned, but I don’t like selling my clients a product that is wrong for them. c) Find yourself sitting in a seat where your job is to trade any illiquid, opaque product with a three-letter acronym.
Today, many of these leaders display a Goldman Sachs culture quotient of exactly zero percent. I attend derivatives sales meetings where not one single minute is spent asking questions about how we can help clients. It’s purely about how we can make the most possible money off of them. If you were an alien from Mars and sat in on one of these meetings, you would believe that a client’s success or progress was not part of the thought process at all.
It makes me ill how callously people talk about ripping their clients off. Over the last 12 months I have seen five different managing directors refer to their own clients as “muppets,” sometimes over internal e-mail. Even after the S.E.C., Fabulous Fab, Abacus, God’s work, Carl Levin, Vampire Squids? No humility? I mean, come on. Integrity? It is eroding. I don’t know of any illegal behavior, but will people push the envelope and pitch lucrative and complicated products to clients even if they are not the simplest investments or the ones most directly aligned with the client’s goals? Absolutely. Every day, in fact.
It astounds me how little senior management gets a basic truth: If clients don’t trust you they will eventually stop doing business with you. It doesn’t matter how smart you are.
These days, the most common question I get from junior analysts about derivatives is, “How much money did we make off the client?” It bothers me every time I hear it, because it is a clear reflection of what they are observing from their leaders about the way they should behave. Now project 10 years into the future: You don’t have to be a rocket scientist to figure out that the junior analyst sitting quietly in the corner of the room hearing about “muppets,” “ripping eyeballs out” and “getting paid” doesn’t exactly turn into a model citizen.
When I was a first-year analyst I didn’t know where the bathroom was, or how to tie my shoelaces. I was taught to be concerned with learning the ropes, finding out what a derivative was, understanding finance, getting to know our clients and what motivated them, learning how they defined success and what we could do to help them get there.
My proudest moments in life — getting a full scholarship to go from South Africa to Stanford University, being selected as a Rhodes Scholar national finalist, winning a bronze medal for table tennis at the Maccabiah Games in Israel, known as the Jewish Olympics — have all come through hard work, with no shortcuts. Goldman Sachs today has become too much about shortcuts and not enough about achievement. It just doesn’t feel right to me anymore.
I hope this can be a wake-up call to the board of directors. Make the client the focal point of your business again. Without clients you will not make money. In fact, you will not exist. Weed out the morally bankrupt people, no matter how much money they make for the firm. And get the culture right again, so people want to work here for the right reasons. People who care only about making money will not sustain this firm — or the trust of its clients — for very much longer.

Wednesday, March 14, 2012

Una bellissima storia italiana

The Pagani Huayra Story - A Documentary


Oggi, una  storia italiana che dovrebbe farci riflettere . 

Una considerazione di apertura : il genio creativo,  unito  alla manifattura tipicamente italiana , che nei secoli hanno  creato così tante opere d`arte ,  dai dipinti del rinascimento,  alla meccanica moderna  , non può essere disperso da politici incapaci . 
Purtroppo per noi , negli ultimi Trent'anni abbiamo  abdicato e di fatto consegnato le leve del potere a  personaggi senza arte ne parte,  che a prescindere dalla bandiera che portano sono degli inetti e delle mezzefigure ( colpa anche mia ) . Caricature di politici che vanno bene alle varie sagre paesane o alla festa dell`Unita`. 
Patetici !!!

Quando pero` vedo che nonostante tutto , ci sono storie come questa,  capisco che ce la si può ancora fare ! 
Questo e` il made in Italy che voglio , non quello di cui si riempiono la bocca quei cialtroni che concionano tutti i giorni  nei giornali ed in televisione ( la guardo pochissime volte,  ma ogni volta che la accendo ci sono sempre gli stessi  incapaci ) .

Forse, siamo arrivato al punto che sarebbe molto meglio che le nostre universita`sfornassero più` ingegneri piuttosto che filosofi  da salotto Vespiano.


Gustatevi i contenuti del video  ( VIVA YOUTUBE)



Quelli che............ Oh Yeahhhh . Da oltre tre anni mi era passata la voglia di sedermi davanti al computer e mettere per iscritto i ...